domenica 19 luglio 2009

NATURA MORTA




per mancanza di idee geniali preferisco andarmene in ferie. Buone vacanze a tutti!

Un saluto cordiale,

Bruno


martedì 7 luglio 2009

Un pensiero di mezza estate. Quasi.





Cari amici, di faccia ne abbiamo una sola. Non va persa. Intendo dire, a quanti si occupano di Politica in prima persona, che spesso è meglio, assai meglio perdere le elezioni e non crucciarsi troppo; anzi, vi dirò, in certi casi sono addirittura convinto che si debba fortemente auspicare che questo si realizzi.
Intendo dire che se non si è in grado, una volta conseguita la vittoria elettorale, di dare le risposte adeguate alle richieste che vengono dalla nostra comunità (cosa del resto assai facile da prevedere), è meglio che quella vittoria non vi sia. A meno che, come spesso accade, si sia perso per strada il fine vero, la ragione stessa della Politica, cosa che si verifica molto spesso oramai, dappertutto oramai, in ogni schieramento purtroppo, allorquando si confonde o furbescamente si sostituisce alla Politica il mero esercizio del potere; allorquando al dovere, al servizio verso la nostra intera comunità – grande o piccola che sia fa lo stesso –, si sostituiscono (fuori della giusta misura) l’ambizione personale ed il proprio interesse: il quale ha una sua ragione di esistere quando è legittimo, diviene invece grave colpa quando è – anch’esso – smodato ed illegittimo.
Ma vi è un’altra colpa, grave anch’essa quanto la brama del potere camuffato da Politica, codesta colpa è nella truffa vera e propria dell’elettorato e risiede nell’incapacità, nell’inadeguatezza, nell’inettitudine di chi vince rispetto ai compiti che la vittoria gli consegna e gli impone. E chi, di noi, affiderebbe il timone della nave ad un nocchiero incapace ed inesperto? E che, lo faremmo provare? Certo che no! Potrebbe solo lui metterci in mezzo dichiarandosi abile, ma quale danno ne verrebbe a noi e alla nave? Anche Fetonte, incosciente e presuntuoso, convinse Apollo ad affidargli le redini del carro, ma quale danno ne venne?! Non si dovrebbe allora fare come Fetonte, in specie se il carro non è né nostro né di nostro padre, ma ad esso sono legati interessi ed aspettative di molti. Ma purtroppo da noi è rovesciata l’antica locuzione latina, e laddove si “dava” a tutti la cosa di nessuno,”res nullius” appunto, si è radicato l’insano costume che considera i “beni” di tutti al pari dei funghi (che per dirla parafrasando sui maccheroni del Boccaccio, chi più ne piglia più ne ha).
Ora qualcuno fra quanti seguono questo blog si domanderà per chi è e dove voglio andare a parare con questa rampogna. Stiano tranquilli, non è per loro. Solo l’invito a qualche caro amico, ad una attenta e pacata riflessione ad un mese esatto dal voto europeo, per il quale, d’acchito, mi ero vietato di dire qualcosa (Non ho nulla da dire, 26 giugno). Ma come il Manzoni tacerò non solo il nome dei personaggi che ho in mente, ma anche quello del luogo. Basti solo che si tratta di una città da “sempre” amministrata (in malo modo, anzi peggio, forse talvolta addirittura da ghigliottina – se i sanculotti locali con gli amici loro non fossero ciechi, muti e sordi –), …amministrata, dicevo, dalla cosiddetta sinistra, con la cieca – anche quella (muta e sorda) – complicità di una Dc, a suo tempo per lo più “compagna di merende”. Ma – si chiederà – il centrodestra, oggi, in quella città, cos’è? Politicamente, s’intende! Cosa rappresenta per tanti onesti e bravi cittadini, per tanti zelanti elettori che bramano il cambiamento dopo decenni? Certo una speranza! E senz’altro costì militano tante brave ed oneste persone, alle quali, credetemi, affiderei temporaneamente ogni mio avere, anche senza una ricevuta, ma, ma… ma vi sono, però, anche “nani” (con tutto il rispetto), ballerine, imbecilli di tutte le taglie, maldicenti, pettegole, perdigiorno, ruffiani, doppiogiochisti, inetti, incapaci, trappoloni, truffatorelli, strolaghi e ladri di galline! E presuntuosi, tanto sciocchi quanto immodesti. Ebbene? Penserà qualcuno. Sentitelo! Ecco l’anima candida!. E non ci sono, codesti, pari pari anche dall’altra parte? E che cosa pretendi, una foresta di alberi perfetti, tutti sani, dritti e riccamente fronzuti?
Per carità! Non fraintendiamo. Per casa mia vorrei il meglio, ma sono pure disposto ad accontentarmi. E allora vorrei solo che chi si propone fosse poi in grado di mantenere le promesse! Dato che le strade sono poche e strette, ed anche cambiando strada s’incontra sempre qualcuno. Rammentate cosa scrivevo all’inizio: di facce ne abbiamo una sola!
Già, si dirà, il solito vecchio, il solito brontolone, il solito rompi coglioni a cui non sta mai bene nulla! Forse. La questione è che per decenni ho chiamato nel deserto (o me lo sono immaginato), ho suggerito e raccomandato di studiare, di prepararsi perché la Politica, non come io la intendo, ma com’è e dev’essere, è cosa assai seria, richiede preparazione, rigore, rinunzie ed abnegazione, ed oggi, nell’ammucchiata che mi appare davanti, vedo per gran parte cialtroneria ed approssimazione; ho visto scegliere i candidati come vidi scegliere in caserma: il meccanico ed il barbiere furono mandati in cucina, il ristoratore di Cesenatico a fare il parrucchiere. Così la scelta dei candidati del Pdl: anzi, peggio, dato che nessuno è stato riformato in questa e mi immagino in altre città. Che tristezza! E non mi si dica, per carità, “mal comune mezzo gaudio!”
Sì, se non si era capito, sono decisamente incazzato. In primo luogo coi vari direttori d’orchestra, nazionali e locali; a cominciare dal signor Fini, e poi, non di meno, giù giù con tutta la schiera di luogotenenti, colonnelli, portaborse, controfigure e leccaculo, locali e nazionali che non hanno saputo opporgli un rifiuto, girargli spalle, fargli il gestaccio dell’ombrello o qualcos’altro altrettanto significativo. Sono incazzato, anzi di più, per tutti quelli che come me hanno militato nel Msi, prima e convintamene in An dopo, per tutti quelli che sono morti, che hanno rischiato la vita, per tutti quelli che hanno speso la loro vita per una idea di Nazione, sognando la pacificazione ed il bene dell’intera comunità; per tutti quelli che per la loro militanza politica sono stati ostracizzati, per quelli che non hanno trovato o hanno perduto il lavoro, per tutti quelli che l’Italia la volevano cambiare davvero, farla onesta, migliore; per quanti hanno rischiato e sofferto tutto quello perché intendevano un giorno potersi cimentare con le loro idee, vincenti, nel governo della nostra comunità nazionale, delle nostre comunità locali; per tutti quelli che come me han sempre pensato alla Politica con la dignità della lettera maiuscola.
Oh quante volte mi son soffermato ad ammirare il monumento funebre del Machiavelli in Santa Croce. Prima passavo dalla lapide di Gentile, poi dall’Italia piangente sull’arca di Vittorio Alfieri, ma poi, ancora lì, a qualche metro, mi fermavo e gettavo lo sguardo più in alto, dove una leggiadra Politica in marmo mostrava come il pensiero e la parola di Niccolò valessero in peso assai più dell’oro.
No! Ci si doveva ingaglioffire. E ingaglioffire e basta.

Ebbene, mio caro amico, che ti illudi nell’arte di schivare scrofe, porcelli e vecchi suini incrostati, ma che saltelli anche tu in codesta poltiglia mefitica immaginandoti chiamato un giorno al rango di pifferaio incantatore…
Meglio nessuno, all’intorno, credimi. Meglio il profumo del maggiociondolo e l’odore umido e intenso del sottobosco. Credimi!
O almeno fermati. Fermatevi. Pensate. E costruite un cavallo capiente.

Bruno Stepic
San Martino, 7 luglio 2009, San Claudio




P.S. Si riproducono alcune opere di George Grosz, ovvero Georg Ehrenfried Groß (Berlino, 26 luglio 1893 – Berlino, 6 luglio 1959)

sabato 4 luglio 2009

Artisti italiani: Arrigo Del Rigo



Non so se per motivi di spazio o per incomprensibile malafede, nella pagina biografica dedicata ad Arrigo Del Rigo, in http://www.pratoshop.com/perso_rigo.shtml , si scrive che « Rievocandone succintamente la vicenda, Ardengo Soffici scriveva nel Frontespizio (Dicembre 1939) queste righe: “Il 26 febbraio del ’32 Del Rigo morì in un’aura di tragedia e di mistero. Così modesto e candido com’era, egli non fu forse sorretto nel momento fatale, dalla coscienza del proprio valore. La sua morte prematura privò i parenti di un figlio bene amato, gli amici di un compagno indimenticabile, l’arte italiana di una luminosa speranza”.» Orbene, certo che Soffici non avrà inteso scrivere un saggio, epperò egli dedica una intera bella paginetta della rivista a questa giovane promessa, troppo precocemente stroncata. E non fa poco, il Soffici, a collocare questo giovane (una giovane promessa e sottolineo promessa) fra gli Artisti italiani, riconoscendogli un valore bel superiore all’oblio regalatogli dall’Italia e dalla Prato (la città di Del Rigo), felicemente democratiche e convintamene antifasciste.
Ma non intendo punto invischiarmi in una polemica che non mi interessa, dal momento che con chi è cieco di fronte ai fatti o in malafede non vi è ragione che tenga.

Rammento però, che una trentina di anni or sono avevo pensato di occuparmi di Del Rigo, scrivendo su lui un articolo o dedicandogli (forse) un intero numero di una arcimodesta pubblicazione che a quel tempo si pubblicava. Chiesi così, allo scultore Quinto Martini (ma ne avevo chiesto anche a Gino Brogi a Pietro Bugiani e Giulio Pierucci), se rammentava Del Rigo: – Certo, che lo rammento! – Incalzo subito, e prese a raccontare. – Fammi un favore – gli dissi alla fine. – Tutte codeste cose, scrivile!
E così un paio di mesi dopo ci incontrammo in fonderia e mi consegnò la “sua memoria”, che aveva affidata a tre cartelle dattiloscritte le quali, tornatemi fra le mani in questi giorni, rendo pubbliche volentieri.
Certo, a rileggere quanto scrive Quinto Martini mi accorgo che senz’altro avrà integrato le lacune della memoria con la sua fervida fantasia d’artista, ma tant’è! Senz’altro si tratta di quanto il Martini amava rammentare del suo coetaneo più sfortunato.




Ultimo incontro con
Arrigo Del Rigo





È passato più di mezzo secolo dalla tragica scomparsa dell’amico, e molti ricordi si sono sfocati perdendo il loro contorno reale. Ma, fra i tanti incontri con lui, uno è rimasto ben chiaro nella mia mente; ed è 1'ultimo del 1932, poco prima della sua fine.
Non ricordo esattamente il giorno ma erano le prime ore di un pomeriggio freddo e grigio. Soffiava un leggero tramontano tagliente, tipico della città
[Prato] dalle tante ciminiere. Fu in Piazza delle Carceri; lui veniva da Via Pugliese, con le mani in tasca del cappotto e il cappello scuro ben calzato in testa. Ci salutammo, sorrise come sempre, scambiammo qualche parola guardando la chiesa [Santa Maria delle Carceri di Giuliano da Sangallo
]; dopo un po' mi prese la bicicletta e, come un ragazzo ,fece più volte il giro della piazza deserta e ventosa. Quando si fermò e me la rese, battendo i piedi in terra disse: "Moviamoci, fa freddo." Attraversando Piazza San Francesco, andammo in Via Rinaldesca a salutare Zola, l'amico sarto. La sua bottega era il ritrovo di noi giovani antifascisti, presi dall'arte, dalla letteratura, dove si parlava anche di politica, di chi era in prigione, e in particolare di letteratura russa. Lasciai la bicicletta appoggiata al muro vicino allo sporto della bottega; e andammo, come tante altre volte, a girellare per la città silenziosa, discorrendo degli amici, del nostro lavoro e delle difficoltà materiali per potersi dedicare con più serenata alle cose dell'arte.
Avevamo la stessa età; e la vita militare da più di due anni & era alle nostre spalle. Quando lo salutai per tornare al mio paese, mi disse risoluto: "Ti accompagno per un pezzo di strada. Sono uscito di casa perché avevo bisogno di prendere aria... Mi sentivo in prigione."
Allungò il braccio destro e guardando le nuvole, tracciò nell'aria un mezzo cerchio. Camminava sul marciapiede, parlava e fischiettava, dondolandosi leggermente com'era sua abitudine. Prima di uscire dalla Porta Santa Trinità, mettendo la mano sul manubrio disse, senza guardarmi: "Anche se fa buio, vedo che ci hai il fanale a carburo." Appena fuori Porta, si tirò su il bavero del cappotto marrone, si abbottonò bene, infilò i pollici nelle tasche, e, accostandosi alla mia bicicletta, cominciò ad animarsi parlando della sua pittura e dei suoi problemi personali: i problemi dell'uomo più che del pittore. (Mi stupiva, perché non lo avevo pensato così introverso.) Erano tempi, quelli, in cui ti sentivi tutto ristagnare intorno, e le aspirazioni dei vent’anni ti apparivano sempre meno realizzabili. Parlava dei suoi sentimenti più intimi con abbandono, scoprendo la sua natura di grande fanciullo, la timidezza e le incontrollate reazioni che spesso sono caratteristiche degli artisti più autentici. Parlando delle sue letture, ti accorgevi che era un pretesto per raccontare di sé, per confidare a qualcuno i suoi timori, i dubbi più intimi, tutta la sua vita condizionata ai moti del sentimento, e quel suo tormento di sentirsi volta a volta diverso di fronte ad uguali situazioni: quasi cercasse di chiarire a se stesso certi stati d'animo e le sensazioni proprie della sua pienezza giovanile.
Malgrado tutto ciò, io pensavo che il suo grande amore per l'arte , e un leggero umorismo verso la vita fossero l'ancora di salvezza per quella sua natura inquieta e tormentata. Ci salutammo al buio.
Mi strinse forte la mano sorridendo, dicendomi: “Allora quando torni a Prato, suonami il campanello." Subito mi voltò le spalle. incamminandosi verso la città. Mentre accendevo il fanale, lo vidi perdersi fra i lumi delle tante biciclette degli operai che uscivano dalle fabbriche. Anche se, strada facendo, riflettevo su certe sue confidenze, ero ben lontano dal pensare che quella fredda serata sarebbe stato il nostro ultimo incontro e il ricordò più chiaro dell'amico,che poco tempo dopo avrebbe chiuso così tragicamente la sue. giovanissima esistenza.
Quinto Martini
(1986)


Ritratto di giovane, 1930


Teatro dei burattini, 1931

Natura morta, 1930

La Rissa, 1932

Autoritratto, 1926



A cura di Bruno Stepic
San Martino, 4 luglio 2009, San Procopio

P.S. Quinto Marini nasce a Seano, Firenze (oggi Prato), il 31 ottobre 1908 e muore nel suo paese il 9 novenbre 1990.
Checché possa aver scritto e detto successivamente, negli anni del suo presunto antifascismo se ne stava attaccato stretto stretto a Soffici, del quale "giustamente" beveva ogni cosa come oro colato... ma collaborava anche, nei modi grafici suggeriti da Soffici, con gradevoli xilografie al fascistissimo "Selvaggio" di Mino Maccari.

giovedì 2 luglio 2009

Un artista toscano


Il mulino, 1928






Oggi, a 104 anni dalla nascita, dedico una “pagina” a Pietro Bugiani, uno dei più originali e significativi artisti del Novecento toscano, e non solo. Purtroppo le riproduzioni di alcuni suoi dipinti assai belli, che propongo ai visitatori del blog, sono di pessima qualità.
Fu, Bugiani, un vero poeta del colore, che, in una incantata stagione (dal 1924 al 1930 circa), fece “vibrare” secondo la forte ispirazione che gli veniva dalle opere dei quattrocentisti. Più tardi mantenne sempre alta la qualità della sua pittura, improntata da una intensa “visione” poetica della natura e da un forte accento personale, che si venò, tuttavia sensibilmente, dei caratteri linguistici adottati da Soffici per raccontare il paesaggio toscano.
Propongo qui alcune righe di Gian Lorenzo Mellini, che ne presentò l’opera alla Mostra “L’arte Moderna in Italia, 1915–1935”, Firenze, Palazzo Strozzi, 1967.
Scrive Mellini:
Pietro Bugiani esordisce con uno stile nettamente archeologizzante (disegni in punta di lapis velati a tempera, 1924, con evocazioni da Andrea del Ca­stagno e Fra Bartolmeo), che lo individua chiaramente da Achille Lega, da Rosai, dei quali condivide il gusto per la rappresentazione del paesaggio ru­rale toscano e delle sue arcane misure, come dal Soffici, del quale ebbe ad adottare in seguito il liquido pittoricismo, e infine dal movimento di «Strapaese» e del «Novecento», colle cui frange ebbe poi a collegarsi. Se­guendo codesta personale sorgiva ricerca, dietro lo stimolo soprattutto let­terario della pittura metafisica, nel senso della scelta del silenzio e della concentrazione, Bugiani dipinge intorno al 1928 una serie di immagini si­lenti di Paese, bloccati in ore antelucane come intagli di pietre dure, di una intensità alta e segreta, quasi montaliana, che lo pongono tra gli esponenti significativi della pittura in Toscana.







Natività, 1928




Sera, 1928



Pomeriggio domenicale, 1928




Sera sull'aia, 1929





Tramonto sul fiume, 1929



Bruno Stepic
San Martino, 2 luglio 2009, S. Urbano