sabato 4 luglio 2009

Artisti italiani: Arrigo Del Rigo



Non so se per motivi di spazio o per incomprensibile malafede, nella pagina biografica dedicata ad Arrigo Del Rigo, in http://www.pratoshop.com/perso_rigo.shtml , si scrive che « Rievocandone succintamente la vicenda, Ardengo Soffici scriveva nel Frontespizio (Dicembre 1939) queste righe: “Il 26 febbraio del ’32 Del Rigo morì in un’aura di tragedia e di mistero. Così modesto e candido com’era, egli non fu forse sorretto nel momento fatale, dalla coscienza del proprio valore. La sua morte prematura privò i parenti di un figlio bene amato, gli amici di un compagno indimenticabile, l’arte italiana di una luminosa speranza”.» Orbene, certo che Soffici non avrà inteso scrivere un saggio, epperò egli dedica una intera bella paginetta della rivista a questa giovane promessa, troppo precocemente stroncata. E non fa poco, il Soffici, a collocare questo giovane (una giovane promessa e sottolineo promessa) fra gli Artisti italiani, riconoscendogli un valore bel superiore all’oblio regalatogli dall’Italia e dalla Prato (la città di Del Rigo), felicemente democratiche e convintamene antifasciste.
Ma non intendo punto invischiarmi in una polemica che non mi interessa, dal momento che con chi è cieco di fronte ai fatti o in malafede non vi è ragione che tenga.

Rammento però, che una trentina di anni or sono avevo pensato di occuparmi di Del Rigo, scrivendo su lui un articolo o dedicandogli (forse) un intero numero di una arcimodesta pubblicazione che a quel tempo si pubblicava. Chiesi così, allo scultore Quinto Martini (ma ne avevo chiesto anche a Gino Brogi a Pietro Bugiani e Giulio Pierucci), se rammentava Del Rigo: – Certo, che lo rammento! – Incalzo subito, e prese a raccontare. – Fammi un favore – gli dissi alla fine. – Tutte codeste cose, scrivile!
E così un paio di mesi dopo ci incontrammo in fonderia e mi consegnò la “sua memoria”, che aveva affidata a tre cartelle dattiloscritte le quali, tornatemi fra le mani in questi giorni, rendo pubbliche volentieri.
Certo, a rileggere quanto scrive Quinto Martini mi accorgo che senz’altro avrà integrato le lacune della memoria con la sua fervida fantasia d’artista, ma tant’è! Senz’altro si tratta di quanto il Martini amava rammentare del suo coetaneo più sfortunato.




Ultimo incontro con
Arrigo Del Rigo





È passato più di mezzo secolo dalla tragica scomparsa dell’amico, e molti ricordi si sono sfocati perdendo il loro contorno reale. Ma, fra i tanti incontri con lui, uno è rimasto ben chiaro nella mia mente; ed è 1'ultimo del 1932, poco prima della sua fine.
Non ricordo esattamente il giorno ma erano le prime ore di un pomeriggio freddo e grigio. Soffiava un leggero tramontano tagliente, tipico della città
[Prato] dalle tante ciminiere. Fu in Piazza delle Carceri; lui veniva da Via Pugliese, con le mani in tasca del cappotto e il cappello scuro ben calzato in testa. Ci salutammo, sorrise come sempre, scambiammo qualche parola guardando la chiesa [Santa Maria delle Carceri di Giuliano da Sangallo
]; dopo un po' mi prese la bicicletta e, come un ragazzo ,fece più volte il giro della piazza deserta e ventosa. Quando si fermò e me la rese, battendo i piedi in terra disse: "Moviamoci, fa freddo." Attraversando Piazza San Francesco, andammo in Via Rinaldesca a salutare Zola, l'amico sarto. La sua bottega era il ritrovo di noi giovani antifascisti, presi dall'arte, dalla letteratura, dove si parlava anche di politica, di chi era in prigione, e in particolare di letteratura russa. Lasciai la bicicletta appoggiata al muro vicino allo sporto della bottega; e andammo, come tante altre volte, a girellare per la città silenziosa, discorrendo degli amici, del nostro lavoro e delle difficoltà materiali per potersi dedicare con più serenata alle cose dell'arte.
Avevamo la stessa età; e la vita militare da più di due anni & era alle nostre spalle. Quando lo salutai per tornare al mio paese, mi disse risoluto: "Ti accompagno per un pezzo di strada. Sono uscito di casa perché avevo bisogno di prendere aria... Mi sentivo in prigione."
Allungò il braccio destro e guardando le nuvole, tracciò nell'aria un mezzo cerchio. Camminava sul marciapiede, parlava e fischiettava, dondolandosi leggermente com'era sua abitudine. Prima di uscire dalla Porta Santa Trinità, mettendo la mano sul manubrio disse, senza guardarmi: "Anche se fa buio, vedo che ci hai il fanale a carburo." Appena fuori Porta, si tirò su il bavero del cappotto marrone, si abbottonò bene, infilò i pollici nelle tasche, e, accostandosi alla mia bicicletta, cominciò ad animarsi parlando della sua pittura e dei suoi problemi personali: i problemi dell'uomo più che del pittore. (Mi stupiva, perché non lo avevo pensato così introverso.) Erano tempi, quelli, in cui ti sentivi tutto ristagnare intorno, e le aspirazioni dei vent’anni ti apparivano sempre meno realizzabili. Parlava dei suoi sentimenti più intimi con abbandono, scoprendo la sua natura di grande fanciullo, la timidezza e le incontrollate reazioni che spesso sono caratteristiche degli artisti più autentici. Parlando delle sue letture, ti accorgevi che era un pretesto per raccontare di sé, per confidare a qualcuno i suoi timori, i dubbi più intimi, tutta la sua vita condizionata ai moti del sentimento, e quel suo tormento di sentirsi volta a volta diverso di fronte ad uguali situazioni: quasi cercasse di chiarire a se stesso certi stati d'animo e le sensazioni proprie della sua pienezza giovanile.
Malgrado tutto ciò, io pensavo che il suo grande amore per l'arte , e un leggero umorismo verso la vita fossero l'ancora di salvezza per quella sua natura inquieta e tormentata. Ci salutammo al buio.
Mi strinse forte la mano sorridendo, dicendomi: “Allora quando torni a Prato, suonami il campanello." Subito mi voltò le spalle. incamminandosi verso la città. Mentre accendevo il fanale, lo vidi perdersi fra i lumi delle tante biciclette degli operai che uscivano dalle fabbriche. Anche se, strada facendo, riflettevo su certe sue confidenze, ero ben lontano dal pensare che quella fredda serata sarebbe stato il nostro ultimo incontro e il ricordò più chiaro dell'amico,che poco tempo dopo avrebbe chiuso così tragicamente la sue. giovanissima esistenza.
Quinto Martini
(1986)


Ritratto di giovane, 1930


Teatro dei burattini, 1931

Natura morta, 1930

La Rissa, 1932

Autoritratto, 1926



A cura di Bruno Stepic
San Martino, 4 luglio 2009, San Procopio

P.S. Quinto Marini nasce a Seano, Firenze (oggi Prato), il 31 ottobre 1908 e muore nel suo paese il 9 novenbre 1990.
Checché possa aver scritto e detto successivamente, negli anni del suo presunto antifascismo se ne stava attaccato stretto stretto a Soffici, del quale "giustamente" beveva ogni cosa come oro colato... ma collaborava anche, nei modi grafici suggeriti da Soffici, con gradevoli xilografie al fascistissimo "Selvaggio" di Mino Maccari.

2 commenti:

  1. Caro Sr. Stepic,
    Prima di tutto scusi il mio italiano, perche vivo in Brasile dal 1946 quando non avevo ancora 10 anni. .
    É stata una grata sorpresa trovare il sua articolo su Arrigo Del Rigo.
    Arrigo era mio cugino, figlio del mio zio Giovacchino, che peró non há consciuto, perché sono nato solamente nel 1937, quando Arrigo non piú viveva.
    Saluti
    Piero R. Del Rigo

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  2. Caro Signor Piero Del Rigo,
    vedo solo ora la sua nota, di cui la ringrazio, sono contento di aver fatto cosa gradita anche se certamente suo cugino Arrigo meritava uno spazio ed un luogo più importanti di questo modestissimo blog. Ma avevo da anni oramai la testimonianza dello scultore Quinto Martini e mi premeva non andasse perduta.
    Cordialmente,
    Bruno Stepic

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