lunedì 2 marzo 2009

alla deriva





Sto riflettendo da tempo, ma in modo un po’ più sistematico in questi giorni, sulla caoticità della situazione politica attuale, che, facendone parte, non è, né può essere staccata dalla più generale situazione della realtà contemporanea (la quale peraltro complessa per tutti i paesi, ha avuto da noi, un contributo specialissimo di complicazione dovuto dal costume viscerale di trattare le cose, in sostituzione della ragionevolezza necessaria per affrontare questioni e problemi). Un problema – quello della caoticità – al quale, sono convinto è impossibile mettere capo, anche perché ai difetti del costume nazionale si vanno aggiungendo i disagi e le complicazioni derivanti dalla globalizzazione. Un problema al quale, se così restano le cose, almeno temporaneamente forse potrebbe portare una soluzione “sintomatica” solo una radicale semplificazione. Intendo una qualche catastrofe di quelle che a volte succedono (ma che io, sia ben chiaro, non mi auguro assolutamente), che scavalcando il problema medesimo, ovvero tagliandolo il nodo in un sol colpo, inducesse a porsi problemi seri e fondamentali, e non certo la gran parte di sciocchezze fra le quali la nostra esistenza, pur breve, deve quotidianamente districarsi. Mi sovviene al riguardo lo stupendo film di Fellini, Prova d’Orchestra, 1979, che però, dato che metteva il dito nella piaga “sindacale” non ha avuto il meritato successo.
E’ chiaro che ad impicciarsi dei “massimi sistemi” si corre più facilmente il rischio di scivolare o enfatizzare delle sciocchezze, specie se per necessità si devono utilizzare iperboli e forzature, ma tant’è; epperò, comunque, il disagio è forte, e altrettanto lo è, anzi lo sarebbe, il desiderio di comprendere, se mai fosse possibile. Un disagio tutto sommato insignificante se attenesse solo la sfera personale, individuale, ma che assume differente valore quando lo si coglie sempre più spesso anche in altri, quando insomma nostro malgrado diviene un “cum sentire”. Del resto per eventualmente predisporsi a risolvere un problema occorrerebbe in primo luogo conoscerne i termini. Ma è possibile oggi attingere tutti i termini del problema che la comprensione della realtà richiederebbe? E, se individualmente inattuabile – almeno fantasticando –, sarebbe possibile programmare una sorta di grande computer capace di farlo? E chi sarebbe in grado di fornire a codesta macchina tutti i dati del reale, cioè di individuarli ed inserirli? E la realtà non sarebbe nel frattempo mutata cento mille volte? Eppoi, se del caso, ancora, affideremmo i nostri destini alle risposte di una macchina? No, io credo che per la infinita complessità degli elementi e delle loro relazioni (note ed ignote), la realtà sia inconoscibile, ovvero sia impossibile formarsene un concetto attendibile, in qualche misura verosimile. Come del resto è impossibile farsi la cosiddetta idea dei fatti leggendosi tutta la stampa che ne tratta, ammesso che qualcuno abbia voglia e tempo di farlo, almeno fino alla nausea. Ciò anche senza incomodare Pirandello o richiamarsi a Rashomon, un vero capolavoro, mirabilmente rappresentato da Kurosawa.
Si dirà: – Ma cosa pretendi! C’è gente, la maggior parte, ed è sempre stato così, che manco si rende conto di esserci... E tu vorresti una generale consapevolezza del concetto di realtà, per cosa poi, per il progetto del destino collettivo? Ma non stai chiedendo la luna? Non stai perdendo tu, del tempo?
Sì, è forse vero, ma però, al di là di sapere dove andremo a cena stasera, o in vacanza nella prossima estate... Non è forse necessario avere una idea di che tipo di società intendiamo costruire? O, quanto meno, in quale senso intendiamo aggiustare i difetti di quella che c’è. Ammesso che si sia in grado di individuarli! Perché una cosa è certa, le spie sono moltissime, la crisi del mondo contemporaneo e delle democrazie è in atto; ed è a mio vedere la conseguenza della democrazia medesima, ovvero il suo paradosso: quando la libertà finisce in licenza; quando ognuno ritiene lecito fare ciò che gli pare; quando il sistema politico, fondato sulla rappresentatività non ha più autorevolezza, perché trova ogni giorno l’interdizione alla propria azione da parte di comitati e movimenti trasversali e non; quando ciascuno ritiene di potere dire la sua essendo venuto meno il principio di gerarchia; insomma quando la nave non è più governabile e va alla deriva. E allora, quando i certi medi, la cosiddetta borghesia piccola e media si sente schiacciata (caro Daniele), quando vede ridursi giorno per giorno la propria possibilità di sopravvivere, dato che nelle crisi è sempre la prima a buscarne, eccola invocare sempre più a gran voce il fatidico pugno sul tavolo; o aspettare quella sorta di messia che dica: – Da ora si fa così! (E io, sia chiaro, non auspico punto la venuta di codesto messia, anzi, lo temo.)
Consiglio, e ti consiglio, caro Daniele di leggere, se già non l’avessi fatto, il romanzo di Ardengo Soffici, Lemmonio Boreo.
Insomma – tornando a questioni meno speciose –, può darsi anche che io stia perdendo del tempo, ma a me pare che un po’ tutti, oggi, intendo gli schieramenti politici ma anche per le questioni che vengono quotidianamente affrontate dalla cronache, nei talk-show e financo nelle parrocchie, per non dire delle chiacchiere nei bar – e sto quindi scivolando nelle bagattelle –, si vada perdendo del tempo, un po’ come se tutti si fosse a pestare acqua nel mortaio. Ciascuno il proprio bel mortaietto, su misura in tutto e per tutto, e, ciliegina sulla torta, ciascuno ad ascoltare il rumore fatto dal proprio, non avendo più orecchie per quelli degli altri, in una sopra di oscura consapevolezza dell’inutilità dell’ascolto di cose vane. E ciascuno aggiunge la propria, contento di averla detta, come se, dal più intelligente al più deficiente, tutti immaginassero che il mondo è lì, in attesa della loro “sentenza”, in mancanza della quale – proprio di quella! – non potrà più andare avanti.
Sono sgomento anche perché avverto fortemente tutta la pericolosità di questo pressappochismo ciarliero, dilagante in tutto e per tutto; la pericolosità dell’opinione quando diviene primato, quando si nullifica nella sua stessa inconsistenza o nella contrapposizione del nulla fine a se stesso. Sono sgomento anche perché sorvolando la storia col pensiero, con la memorie dei fatti, mi pare che mai come oggi il nostro pianeta abbia avuto inquilini così inutili, così insignificanti e perditempo.
Dico: almeno l’operaio del ‘700 che mi viene ora a mente, a Venezia, in un campo qualsiasi, ma prendiamo a mo’ d’esempio il Campo dei Gesuiti, una bella cornice nel marmo sapeva intagliarla! Oggi si partecipa tutti in qualche modo, consapevolmente o inconsciamente alla costruzione sempre più complessa di sub-mondo cosiddetto virtuale, e ci si scorda che siamo seduti su quello reale.
Insomma a me pare che, a farla breve, si sia smarrita non solo l’idea di cosa “costruire” ma anche quella di dove intendiamo andare – come società, intendo –, e che addirittura ci si sia dimenticati che stiamo compiendo una sorta di “viaggio”, nel tempo e nella storia. Un viaggio che come minimo richiederebbe almeno la presenza a se stessi. La consapevolezza del rischio che si corre a smarrire la rotta.
Ora io non so punto se vi siano delle soluzioni, né chi possa mettersi a cercarne, e però, credo che almeno il problema sia necessario porselo. Avverto con disagio la caoticità assurda di questa specie di torre di Babele che abbiamo costruito e, “sinistramente”, ne temo le conseguenze. E’ come, insomma, se tutti stessimo a discutere animatamente di tutto, tutti contemporaneamente, dalle cose apparentemente più serie a quelle sostanzialmente più frivole e sciocche, mente l’acqua gelida sta inondando copiosamente la stiva; ovvero che, mentre i più danzano e sorridono come beoti, alcuni – pochi per la verità – stiano lì a rastremare un turacciolo per tappare lo zampillo nella parete, assolutamente inconsapevoli, anche loro, che l’acqua, che copiosamente ha invaso i ponti è già all’altezza delle ginocchia, o dei “testicoli”.
Io non so neppure se siano possibili movimenti in controtendenza, se pensare a modelli sociali ed organizzativi della società differenti da questo sia in qualche modo possibile o anche l’ipotesi possa innescare fenomeni economicamente e socialmente disastrosi, epperò avverto che questo colossale congegno, questo infernale e perverso meccanismo ci sta in qualche modo fagocitando. Insomma, al di là della tutto sommato inutile perché circoscritta e di fatto complessivamente insignificante fortuna o sfortuna personali, non mi pare che come società si possa affermare o credere più nel faber sue quisque fortune, ma che al contrario si sia, nella migliore delle ipotesi, pragmaticamente al traino degli eventi, generati questi da un sistema di cui tutto o quasi ci sfugge, del quale abbiamo perduto il controllo, un po’ come in quelle situazioni (e lì il quadro generale era assai più semplice), che determinarono per reazione la fortuna delle dittature.

Bruno Stepic

San Martino, 2 marzo 2009
P.S. L'amico Daniele ha pubblicato un post Il Fascismo prossimo venturo, al quale alcune delle considerazioni sopra esposte ben si collegano. Lo ringrazio qui per la benevolenza della sua ulteriore molto articolata risposta.

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